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Un fenomeno culturale di cui devono tener conto gli studiosi di teatro contemporaneo come quelli di teatro antico è che dagli anni Sessanta del Novecento ad oggi sono state messe in scena in tutto il mondo molte più tragedie greche che in qualsiasi altra epoca storica.

Perché la tragedia greca continua a parlare ad un pubblico lontanissimo nello spazio e nel tempo dal pubblico originario? E perché, in contesti sociali e storici diversissimi, continua a suscitare emozioni? Rispondere a queste domande significa anche chiedersi perché e come la poesia, la letteratura e l’arte non divengano mai inattuali. Bisogna tener conto anche di un altro fenomeno culturale e di costume: lì dove la parola ‘teatro’ si lega anche alle rovine degli edifici dell’antichità, le rappresentazioni cosiddette ‘classiche’ sono diventate una parte non irrilevante dello spettacolo dell’archeologia, se ci si consente l’espressione: ossia del riuso e della rifunzionalizzazione dei monumenti antichi, teatri e non solo, per spettacoli che a loro volta tendono a fare dei monumenti o delle rovine archeologiche uno spettacolo.

Una questione però continua a dividere, spesso con toni accesi, studiosi, critica e pubblico: come si deve mettere in scena oggi una tragedia greca o un tema tragico greco? Bisogna rispettare, almeno nel testo, la ‘fedeltà’ all’ ‘originale’ – sono questi i due termini che ricorrono in varie discussioni, spesso usati con superficialità e scarsa consapevolezza – oppure il cosiddetto ‘originale', come accade ormai da decenni nel teatro post-drammatico, può essere decostruito, contaminato, persino messo a tacere rispetto agli altri elementi della performance?

Con tale questione si debbono confrontare i direttori artistici di teatri e di Festival dalla lunga, talora lunghissima, tradizione, come quello di Siracusa, e, in Grecia, di Epidauro – Festival, quest’ultimo, istituito a metà degli anni Cinquanta – (sulla storia culturale della tragedia greca in età moderna vedi il libro curato da Jennifer Wallace nel 2021 per la serie dedicata all’argomento da Bloomsbury).

La stessa questione riguarda da vicino registi, attori, scenografi. È dunque un tema di teoria e prassi artistica ma è anche un tema economico, almeno lo è diventato sempre di più visti i ripetuti sold out nelle stagioni di teatro antico in Italia e in Grecia; è infine una questione che coinvolge il pubblico, fruitore, pagante, dello spettacolo. È inevitabile che oggi più che mai gli addetti ai lavori che intendono misurarsi con la tragedia greca o un mito tragico antico debbano interrogarsi sui gusti e sulle aspettative di un pubblico, che è diverso non solo da quello che sedeva a Epidauro negli anni Settanta del secolo scorso ma anche dal pubblico dell’era pre-Covid: come noto, questa epoca pandemica ha portato a molti cambiamenti nel teatro, il più macroscopico dei quali è stato l’incremento d’uso della realtà aumentata e del virtuale, anche nel teatro ‘classico’ (ne abbiamo parlato ad esempio qui e qui; inoltre si veda Mario Telò, Greek Tragedy in a Global Crisis. Reading through Pandemic Times, Bloomsbury Academic 2023).  

Noi, che siamo spettatori oltre che studiosi, stiamo dalla parte di chi non considera il teatro antico un fossile da contemplare, un ‘originale’ da ricostruire e riprodurre con ‘fedeltà’.  Pensiamo che il materiale tragico greco, fatto di testi, miti, cultura, abbia molto da offrire a un teatro contemporaneo che voglia e debba incidere nelle molteplici realtà, culture e società del presente. Questo blog e la rivista Visioni del tragico traggono alimento dalla convinzione che la tragedia greca sia e debba essere nostra contemporanea (ad esempio qui), che costituisca una eredità viva, potente e tuttavia fragile, che, nelle mani di registi, drammaturghi, attori, danzatori con acuta capacità di visione e ascolto, riesca a provocare pensieri ed emozioni, a suscitare stupore, e ancora pietà e paura.

Come noi sembra pensarla Katerina Evangelatos, studi a Mosca e Londra, dal 2019 direttrice artistica del festival di Epidauro. Del suo programma, che si può leggere qui, condividiamo ogni parola: la responsabilità culturale e morale di dirigere un Festival come quello di Epidauro diviene oggi immensa. Da una parte bisogna tutelare il patrimonio artistico e culturale specificamente greco; dall’altra bisogna aprirsi al mondo. Senza dimenticare il passato, bisogna affrontare i problemi aperti del presente, mettere le dita nelle piaghe della contemporaneità, non chiudere gli occhi davanti a fatti storici dalla portata globale, guerre, migrazioni, crisi climatiche ed economiche. Il teatro deve diventare o ridiventare punto di incontro per il dialogo interculturale e luogo di riflessione sul presente. Il teatro non è evasione o chiusura nella fortezza del passato: al contrario è confronto con temi filosofici ed esistenziali già posti nell’antichità, e oggi più che mai deve farsi esortazione ad agire, a non restare inerti.

Le tragedie greche messe in scena a Epidauro inducono il pubblico a pensare: con le Baccanti si pone in primo piano il tema della fluidità di genere, con l’Ippolito, per la regia della stessa Evangelatos, si rappresentano le fantasie sessuali di Fedra senza reticenze.  Per una sezione specifica (Contemporary Ancient), si commissionano a drammaturghi contemporanei riscritture della tragedia greca (quest’anno, ad esempio, tocca allo Ione di Euripide). Il festival conserverebbe di ‘classico’ solo i resti archeologici del teatro: un condizionale d’obbligo visto che questi stessi resti non sono ‘congelati’ in un passato lontano ma hanno continuato a vivere nei secoli e a essere oggi parte attiva nelle rappresentazioni contemporanee. Ci firmiamo qui su questo punto, certo rilevante e al centro di continui confronti, spesso scontri, tra chi approva e chi no, tra studiosi, addetti ai lavori del teatro, pubblico, il riuso dei teatri antichi. 

Veniamo ora allo spettacolo internazionale di punta del Festival di Epidauro 2023:  la Medea di Frank Castorf, classe 1951, regista di culto della scena europea,  guida della ‘mitica’ Volksbühne di Berlino per oltre un ventennio (sui teatri di Berlino vedi qui). Ecco dunque, dopo Ödipus di Ostermeier (di cui abbiamo parlato qui), Alcesti di Johann Simos (nella nuova versione di Anne Carson), Agamennone di Ulrich Rasche, Medea di Castorf,  un'altra, attesa, sfida con uno dei testi emotivamente più coinvolgenti della tragedia greca.

In scena, però, qui non c’è solo la Medea di Euripide: il testo antico è contaminato con passi da Heiner Müller e Arthur Rimbaud. Sull’orchestra del teatro di Epidauro si presentano insieme cinque diverse figure col nome di Medea[1], personaggio polimorfo e plurale, che non si può semplicisticamente etichettare madre assassina. A Epidauro è andata dunque in scena  la Medea di Castorf, non di Euripide né di un altro autore drammatico: è andato in scena un confronto filosofico serrato, a tratti impietoso, con i sensi che si possono attribuire al mito euripideo  interrogandosi anche oltre Euripide. Una lettura diversissima, quasi antitetica, rispetto a quella proposta nella tragedia vista a Siracusa-INDA 2023 (di cui qui si può leggere la nostra recensione).

Castorf ha contaminato l’antico teatro di Epidauro con un ingombrante video che copre tutto il fondale, proiettando in direzione dei novemila spettatori, arrivati da tutto il mondo, inattese immagini contemporanee, da quelle di grattacieli costruiti in riva al mare a scene da un campo profughi, come quello tristemente noto di Lesbos. È questo il mondo della migrante Medea di Castorf, una straniera che per vivere deve vendersi (in questo ricorda la Cassandra di Sergio Blanco - vedi qui): le cinque le Medee sono vestite tutte da prostitute, con abiti attillati, scintillanti, dorati, rosso fuoco, con trucco pesantissimo. Lo sguardo su queste donne, su cui indugia la camera che trasmette le immagini sul video e che denuda letteralmente le interpreti, rivelando parti intime del corpo, è quello di una mascolinità tossica, di Giasone e Creonte, che considera Medea nulla più che un oggetto sessuale da consumare e poi gettare via.

L’ambientazione di questa Medea sembra voler andare oltre, sembra voler persino nascondere, il teatro antico di Epidauro, con la sua storia e la storia dell’annesso complesso sacro ad Asclepio, luogo di guarigione e di comunicazione con il divino. Medea tra le rovine archeologiche appare fuori posto: il suo luogo è un mondo malato e senza possibilità di guarigione, sporco di plastica e rifiuti di ogni tipo, che infatti dilagano sull’antica orchestra trasformata da Castorf in principale luogo scenico. Medea è reduce da una terra dove si combatte una guerra che minaccia di diventare globale; ha navigato su un’imbarcazione di fortuna per un Mediterraneo assetato, caldo, tomba di migliaia di persone. Questa Medea non viene dal passato, ma è nostra contemporanea: si aggira, come nei difficili ma bellissimi frammenti drammatici di Heiner Müller a lei dedicati, su una riva popolata da disperati, in un globale mercato nero di merci andate a male e di corpi.

Una Medea che si può incontrare a Lesbo, a Ventimiglia, a Lampedusa, tra sacchi di spazzatura e desideri interrotti, una Medea che vende cibo e se stessa nelle baraccopoli delle campagne di Foggia o della Campania. «Il resto è letteratura», dice il testo di Heiner Müller, e sulle sue orme Castorf non vuole fare letteratura, ma il suo teatro. E il suo teatro è teatro tedesco dell’est, che ha preso l’avvio con il teatro di Brecht, ha poi attraversato tutta la stagione del muro con Heiner Müller, è rimasto come uno scheletro di dinosauro alla Volksbühne berlinese sino a che Castorf ne è stato sovrintendente.

Un teatro non sempre compreso né comprensibile, i cui testi, come quelli di Heiner Müller, sono esigenti, criptici, raffinati. Un teatro che si ama o si odia. Perciò, nella caldissima sera d’estate greca, chi è venuto qui in cerca del ‘classico’ o della Medea di Euripide, oppure solo del selfie con sullo sfondo il teatro antico che ha trovato oscurato dal video, non regge facilemente le tre ore e mezza di rappresentazione. «È rimasto qualcuno tra il pubblico?», chiede a un certo punto ironicamente un cameramen che sta filmando dietro le quinte quel che accade in un locale di streaptease, video che viene contemporaneamente proiettato in scena. E i superstiti scoppiano in un’epica risata.

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: le bottiglie di plastica e le lattine di Coca Cola sulla scena, le cartacce, le tende da campo profughi disturbano, con la loro trasparente allusività, chi non vuol vedere e non vuol sapere; le immagini di una discoteca dove la techno copre la falsa estasi di adolescenti ubriachi e impasticcati appaiono di un moralismo intollerabile da chi ritiene creative le devianze; i piani storici evocati dalla rappresentazione, dall’Atene del V sec. a.C. alla guerra di indipendenza greca del 1821, dalle prigioni e torture sotto i Colonnelli alla Grecia contemporanea dopo la crisi economica, non sono forse immediatamente comprensibili da chi rifiuta la storia e non la considera utile. Questo non è teatro catartico, ma è un teatro che ferisce.

‘Medea’ vale come metafora di conflitti più che mai irrisolti: tra gli ‘altri’ e noi, tra i paesi imperialisti e le antiche e nuove colonie, tra ambientalisti e consumisti, tra Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo.  I figli di Medea sono le vittime innocenti di tali conflitti, i loro danni collaterali. Il pubblico urla quando i bambini vengono uccisi dalla madre e i cadaveri sono esposti tra la spazzatura, un’immagine il cui orrore non riesce certo a superare quella di bambini annegati o morti di sete o di fame che vediamo continuamente da anni, da troppi anni, in televisione e in rete, quasi ormai disumanamente assuefatti.    

Questa Medea uccide i figli: per rabbia, per solitudine, per follia. Perché è stata tradita. Perché non accetta il mondo in cui dovrebbero vivere. Per disperazione, perché sa che non potrebbe sfamarli. Perché la morte è preferibile a una vita indegna. Perché lei stessa e i suoi figli sono già morti, nel momento in cui hanno messo piede in una terra straniera. Ognuno può darsi una risposta davanti a questa duplice morte, più terribile di altre. Ma deve anche sapere che non basta urlare d’orrore o commuoversi per un istante, o chiudere gli occhi per paura. Questa Medea non è e non vuole essere letteratura.

 

 

 

[1] Le attrici Stefania Goulioti, Sofia Kokkali, Maria Nafpliotou, Angeliki Papoulia, Evdokia Roumelioti sono volti televisivi molto noti in Grecia.  

 

Trailer qui e sulla pagina ufficiale del Festival

Su MEDEA ANTICA E MODERNA si rifletterà a Verona dal 13 al 14 settembre, in occcasione della messa in scena della tragedia con la regia di Federico Tiezzi al Teatro Romano di Verona: