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Visioni del tragico / Covid 19
- Alberto Bernabé
- Visioni del tragico /Covid 19
Ora che le mascherine sono al centro dell’attenzione come mai prima d’ora, la mia immaginazione, che qualche volta mi gioca brutti scherzi, mi spinge a strane associazioni di idee.
Le condivido qui, con l’avvertenza che tutto ciò che segue manca di logica ed è simile a quei pensieri strani che ti assalgono nel dormiveglia, senza che tu possa spiegarli né fermarli. Pertanto, quel che dirò ha solo casuali coincidenze con la realtà e niente di quello che segue va preso sul serio. Consideratelo, vi prego, un passatempo, come quel vecchio gioco “a chi somiglia…?”.
La prima associazione di idee che mi viene in mente: la maschera ha sempre avuto, tra le sue funzioni basilari, occultare l’identità di chi la porta. Così ho pensato che, forse, chi la porta per uscire in strada cerca inconsciamente di passare inosservato, per evitare di essere riconosciuto dalla malattia, e sperando che alla malattia sembri più interessante qualcun'altro.
La seconda associazione istituita dalle mie idee un po’ balzane è con la maschera del teatro greco. E allora non posso evitare di accostare le persone con la maschera a un coro della tragedia greca: quel coro ricordava la fragile condizione umana e provocava negli spettatori la catarsi, attraverso l’orrore e la pietà.
La terza associazione è con l’isolamento. Inevitabilmente mi torna alla memoria (soprattutto perché ieri davano il film in una di quelle emittenti da quattro soldi che si intercettano con lo zapping, nell’inutile ricerca di qualcosa di interessante) la ‘maschera di ferro’, che obbligava chi la usava all’orrore dell’isolamento con, in più, la negazione del diritto di essere riconosciuto.
Ed infine, la maschera è la caratteristica di altri esseri: i supereroi. Mi è venuto in mente che molti di quelli che la portano si comportano come tali: per aiutarci, per salvarci, e nella loro immensa modestia o generosità non vogliono essere riconosciuti e identificati con il ragazzo che beve il caffè al bar o con la ragazza che ogni mattina prende l’autobus per andare a lavorare. Che siano benedetti.
Alberto Bernabé Pajares è grecista e storico delle religioni, professore emerito dell’ Università Complutense di Madrid. https://de.wikipedia.org/wiki/Alberto_Bernab%C3%A9_Pajares
Il post è stato tradotto da Sotera Fornaro e Raffaella Viccei.
- Antonio Carta
- Visioni del tragico /Covid 19
Come i “cigni neri” possono aiutarci a rendere il nostro sistema sociale anti fragile
Perché, come suggerisce il titolo di questa breve riflessione, bisogna elogiare lo spreco? Prima di rispondervi consentitemi di fare un passo indietro e parlarvi di un altro grande elogio, quello dell’imperfezione.
Sì, mi riferisco proprio alla famosa autobiografia di quella notevole donna e scienziata che fu Rita Levi Montalcini.[1] Lei elogiava l’imperfezione quale atto fondante di un qualsiasi processo di crescita e miglioramento, ancora di più: progresso. La Montalcini ci ricorda che tutto ciò che ci circonda, per quanto armonico, bello e funzionale ci possa apparire, è frutto di un processo di miglioramento di un prototipo rudimentale, approssimativo, solo in parte funzionante, cioè imperfetto.
- Maria Grazia Farbo
- Visioni del tragico /Covid 19
Tutto inizia sommessamente, con una frase che risuona in testa “non può accadere a me”. Suoni lontani provengono dai telegiornali, dalle notifiche sugli smartphone ed un lento passaparola di un collega, di un amico dell’amico, ci informa che in un’altra parte del mondo sta succedendo qualcosa di indefinito. Una parte della popolazione del mondo orientale sta morendo velocemente a causa di un male silenzioso, che nessuno vede, ma che purtroppo si sta facendo conoscere con esiti nefasti. Come un vento che spira dai monti Ta-pieh eccolo arrivare impetuoso, forte e freddo come la morte anche nel nostro Paese, a casa nostra, nella nostra quotidianità. L’atteggiamento cambia, muta la percezione della realtà che stiamo vivendo. Le nostre abitudini vengono completamente stravolte, le nostre certezze umane, sociali e scientifiche vengono spazzate via proprio da quel vento freddo che spira da lontano. Il virus che ha investito l’intero paese ha un nome: Covid19, niente di più, si conosce ben poco di lui, provenienza incerta, virulenza e aggressività certa: infetta con una precisione spaventosa. Ora ogni individuo, in Asia, Europa, Africa, America, sa finalmente che quella che chiamava ‘l’altra parte’ del mondo è il suo stesso mondo. Questa forse è la tragedia, quel che chiamiamo tragedia: la consapevolezza di un destino davvero comune. La tragedia insita nella globalizzazione, di cui solo adesso afferriamo uno dei più concreti significati. La tragedia diventa assistere al collasso del sistema sanitario per il numero elevato di ricoveri e vedere come noi esseri umani siamo impotenti verso un microrganismo così piccolo ma così potente. L’organizzazione e la voglia di unità ci deve permettere di andare avanti e sconfiggere questo male silente che nel suo silenzio assordante smuove grida strazianti di dolore.
Nell’antico mondo greco, le catastrofi naturali, le pestilenze e le malattie venivano combattute ma anche accettate, perché si pensava che un volere più grande dell’uomo fosse una ritorsione contro gli esseri mortali e i loro comportamenti disdicevoli. Ma noi? Se abbiamo una visione laica, razionale della storia, cosa dobbiamo pensare di questa pandemia? Come giustifichiamo la tragedia di cui non siamo più spettatori, ma protagonisti? Cosa ne ricaviamo? Ne ricaviamo credo, in un primo momento, il dover tornare alla storia, alla più recente, alla passata, alla remota. A quello che non abbiamo imparato dalla storia. Dobbiamo tornare all’amore per la storia. Da questa ultima pandemia, che sta piegando l’intera popolazione, dall’essere coinvolti in questa tragedia, emerge ancora una tragedia, la tragedia del non ricordare, del non riportare alla memoria quello che ci ha fatto soffrire ma che ci ha fortificato, dunque la nostra storia. E per storia non intendo solo la storia individuale, e nemmeno la storia del singolo popolo, della singola nazione, ma la storia che ci riguarda tutti come esseri umani, alcuna visione globale della storia, che ci riconduce alla nostra fragilità in quanto esseri umani. Siamo uomini, vulnerabili, indifesi. La tragedia consiste proprio nel delirio di onnipotenza del singolo individuo come della massa, che dimentico della storia e dei suoi insegnamenti, pensa di poter essere dio, nutre pensieri di onnipotenza.
Il mio personale punto di vista di microbiologo, amante della scienza, della conoscenza e alla continua ricerca del sapere: sono spaventata dall’iniziale inconsapevolezza e leggerezza delle nostre coscienze, dal pensare di essere degli dei, dimenticandoci che quelli stavano sull’Olimpo, al massimo sulla terra era possibile trovare dei semi dei, ma anche quelli ahimè non ebbero vita facile. Non abbiamo un vello d’oro con il quale sentirci invincibili, il nostro manto dorato di Crisomallo è invece la scienza, la ricerca e la voglia di conoscenza che può aiutarci a essere più forti. Oggi sono immani gli sforzi di tutti gli operatori del settore scientifico e sanitario, che a fatica cercano quell’ossigeno per il quale gli stessi pazienti in terapia intensiva lottano ogni ora. Il mondo scientifico si è trovato spiazzato umanamente, ma non professionalmente, ad affrontare questa nuova e sconosciuta ondata di infezione. E tuttavia la nuova emergenza ha però dato un grande impulso e nuova linfa vitale alla ricerca: oltre ai sanitari negli ospedali in prima linea, ci sono i ricercatori, i quali lottano contro il tempo stando nei laboratori diagnostici e di ricerca.
La parte più difficile per valorizzare il grande lavoro che si sta svolgendo è il rispetto delle norme per un contenimento, molto spesso non compreso, da alcuni visto come una “tragedia”, non volendo comprendere che la vera tragedia consiste nell’egoismo del singolo nei confronti del prossimo. Questa situazione sta colpendo singolarmente ciascuno di noi in ogni suo aspetto, privato, familiare, lavorativo. Stiamo non solo assistendo ad un ribaltamento della realtà quotidiana; una tragedia strana, quella in cui però siamo i protagonisti e non più solo spettatori. Il nostro non è un naufragio con spettatore, è un naufragio e basta. Proprio come per la tragedia greca inscenata nei teatri nel secolo di Sofocle ed Eschilo, stiamo scoprendo che è purtroppo possibile qualsiasi evento imprevisto, anche l’entrata in scena all’improvviso di un virus in grado di piegarci. Dunque è arrivato il momento del δρᾶν, del fare, in tutti i campi, con un nuovo linguaggio universale per agire insieme.
Il virus Covid19 che ci appariva lontano e sconosciuto, oggi ci controlla e ci sorveglia, proprio come fosse un nuovo e invisibile carceriere. La nostra abilità è quella di riuscire a cambiare velocemente questa nostra condizione di soggiogamento, perché abbiamo tutte le armi per rompere catene invisibili ma che lacerano i polsi, ma non le menti, l’ingegno e la speranza. Tutti i cambiamenti che apporteremo da oggi avranno delle ripercussioni profonde nel tessuto sociale e il Covid19 entrerà nella nostra storia e la memoria, anche la memoria scientifica, sarà un’altra fondamentale alleata per aiutarci nelle prossime sfide pandemiche.
Maria Grazia Farbo è microbiologa e virologa. Attualmente post-doc presso il Dipartimento di Agraria (Sezione Tecnologie Alimentari) dell’ Università di Sassari.
- Gigi Spina
- Visioni del tragico /Covid 19
Se dovessi sintetizzare le mie riflessioni di questi giorni in una frase, sceglierei quella di Carlo Tonelli nell’articolo Quando le parole ci aiutano a vivere (Corriere della Sera del 25.03.20, p. 29): “Sono irritanti le opinioni del tutto sbagliate di alcuni intellettuali, ma si può trovare conforto nelle rare dichiarazioni di chi aiuta coloro che soffrono”. Provo a spiegare perché questa frase mi rappresenta completamente, fin nella scelta di aggettivi, sostantivi, verbi. Ci trovo indicata, in qualche modo, quella che sento, in questa vicenda del coronavirus, la netta divisione in due del nostro paese, divisione non geografica, sociale, di genere: c’è la parte che combatte direttamente col virus, perché infettata o perché impegnata nella cura dei malati o perché alle prese ogni giorno con decisioni politiche non facili da prendere, a tutti i livelli; e c’è la parte che in vari modi, ma relativamente in seconda linea, se non nelle retrovie, può contribuire all’esito positivo di questa battaglia, o continuando a lavorare a casa o facendo, con tutte le necessarie forme di protezione, lavori necessari e indispensabili per la vita di tutti, o semplicemente rimanendo a casa. In questa seconda parte e, non esito a dirlo, in forma assolutamente privilegiata – non vorrei confondermi in un noi impreciso e furbo, preferisco l’io raccontante e pensante per quello che è – mi trovo io, un professore universitario in pensione, ma ancora attivo nello scrivere e comunicare con gli altri e anche nella formazione dei docenti nel proprio campo di studi. Come uno che faccia parte di un coro su una scena tragica? Forse, anche se il ruolo di corifeo dovrebbe spettare necessariamente (se ne ha il tempo) a chi ‘milita’ nella prima parte. Presente sulla scena, dunque, ma con un ruolo defilato, di partecipe quando è chiamato a interloquire, ma non per diritto divino al centro della scena.
Luigi (Gigi) Spina è filologo classico, saggista, scrittore, commentatore politico e soprattutto un vero amico. http://luigigigispina.altervista.org/?doing_wp_cron=1585227077.0306389331817626953125