default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Edipo a Colono, regia di Peter Stein

 «Ecce ubi sum»: note rapsodiche sulla tenebra (in)avvertita 

 In fuga dalla peste, in un mondo invaso da cadaveri abbandonati lungo le strade o composti in feretri talmente numerosi da ingombrare le chiese, Francesco Petrarca affidò a una celebre Epystola metrica (I, 14, Ad seipsum) una sofferta analisi interiore.[1] Con la solita acutezza (e inclinando come d’abitudine a una compiaciuta macerazione nell’anelito a traguardi inarrivabili), Petrarca consente qui una vertiginosa osservazione della ricerca di un bandolo tra i viluppi della sua anima.

 …voi dei, manifestatevi, cacciate via la morte,

se già in passato, contro la rovina

che invase la città, voi respingeste

lontano, via da noi, la fiamma del dolore:

venite qui anche adesso.

 

I miei dolori sono senza fine:

e tutta la mia gente

soffre, nessun pensiero oppone un’arma

per resistere al male. E più non cresce

frutti la terra splendida, le donne

non sciolgono, nel parto, le grida dei travagli,

e un uomo dopo l’altro – vedi – come

voli d’uccelli corrono

più forte d’una fiamma incontenibile

alla riva del dio che dà il tramonto.

Muore di tante morti la città,

senza numero: e giacciono, i suoi figli, abbandonati, a terra,

senza un pianto,

e spargono la morte: e ovunque, spose

che strillano alle sponde degli altari

e madri incanutite, supplicando

pace per tutto il male che le affligge.

 

Ares violento, nudo

di scudi, senza bronzo, ora mi assale,

grida, mi brucia: e tu caccialo indietro,

che corra, vòlto in fuga, via, lontano

di qui

 

Tu distruggilo, Zeus, sotto il tuo lampo,

padre, tu che hai il dominio

dei fulmini infuocati.

(La lezione di oggi sarà su alcuni versi dalla parodo dell’ Edipo Re di Sofocle (vv. 161-203, traduzione di Federico Condello), in una classe al terzo anno di un liceo artistico sulle rive dell’Osellino. Ho condiviso il file con il testo, senza indicare l’autore, senza dire nemmeno in generale di cosa si tratta.)

Solo qualche parola di introduzione: c’è un gruppo di abitanti di una città che invoca gli dei perché vengano a salvarli dalla peste. Ho letto la traduzione dei versi ad alta voce.  

Avete capito? Coro di 'no' (alcuni in chat, alcuni aprono l’audio).

Discutiamo insieme di come il poeta rappresenti l’epidemia, propongo. Quali sono le parole che usa per descrivere la peste? Un messaggio dietro l’altro, in chat: rovina, dolore, fiamma, morte, pena.

Cosa provoca l’epidemia? Una catastrofe, scrive Mathias – l’esercizio non gli piace, è evidente.

Muoiono tutti, scrive C. Quasi tutti, aggiunge L.

La terra non dà più frutti, le donne non partoriscono, le spose piangono i mariti, le mamme piangono i figli, cerco di parafrasare i versi.

Greta: si parla di un’epidemia vera?

Si, il poeta si riferisce ad un fatto storico, la peste di Atene, iniziata nel 430 a.C., rispondo.

Questa è l’ora di storia o di italiano?, chiede disorientato C.

Greta apre il microfono: non ho capito alcune cose, nemmeno la parola ‘incanutite’. Spiego l’aggettivo.

Greta legge con più attenzione: che vuol dire ‘venite qui anche adesso’?

Gli dei sono già venuti un’altra volta ad aiutare la città, forse sempre per la peste, dico.  La stessa peste o un’altra? – domanda subito A.. Probabilmente la stessa, dico.

Una delle paure legate alle epidemie è che ritornino, anche noi abbiamo paura che l’epidemia ‘ritorni’ alla fase uno, per questo non riaprono le scuole. Continueremo ad andare a scuola in chat? – scrive L.

Mathias, aprendo il microfono: non è poi così male, la scuola in video conferenza. Nemmeno vedere i nonni su skype, scrive subito dopo. Li vedo più adesso di prima.

La città si chiama Atene? chiede F.

Il poeta che ha scritto questi versi pensa certamente ad Atene, ma può essere una qualsiasi città, una città che è in balia di un’epidemia, dico.

Una zona rossa, dice Greta, come era Vo’? Come è l’Italia? Come era la Cina?

Si, qualcosa del genere.

A quei tempi non avevano skype, provoca Mathias.

Qual è l’immagine che in questi versi vi sembra più legata alla peste? – insisto.

Il fuoco – risponde subito F..

La malattia ‘brucia’, gli uomini sono avvolti da una ‘fiamma’ che non si riesce a spegnere: in preda a questo fuoco, corrono verso la riva del ‘dio che dà il tramonto’.

Che significa? Il tramonto dà l’oscurità, quindi qui si tratta del dio dell’oscurità.

Chi è questo dio dell'oscurità? -  torna a scrivere Mathias. Il dio dell’oltretomba, il dio che non ha luce, il dio del buio: i Greci lo chiamavano ADE, l’invisibile.

Lo conosco, dice il timido F., ho visto il film [forse Hercules della Disney, 1997, o forse lo ha inventato].

Gli uomini corrono verso la riva di un fiume, credendo di poter così spegnere la fiamma che li sta divorando: in realtà vanno verso la morte, perché si immergono nel fiume dell’al di là. Cerchiamo di capire queste immagini.

L’immagine della ‘corsa’ vuol dire che la malattia ‘corre’, scrive Greta. L’immagine della riva significa che morire è attraversare un confine, come tra la riva e l’acqua di un fiume, dice Sofia, aprendo il microfono.

L’immagine della fiamma e del fuoco è più chiara, aggiunge Giada: rappresenta la febbre, che è il sintomo della malattia.

Allora cosa sono gli asintomatici? chiede T. Quelli che non hanno la febbre, risponde Giada con sicurezza.

Perché un fiume e non il mare? – scrive qualcun altro. Perché i Greci immaginavano l’oltretomba al di là di un fiume.

Un fiume come l'Osellino?, scrive C. poi aggiunge l'emoticon con una risata :))) 

Forse siamo sulla soglia dell'oltretomba, dice Chiara, pensierosa. 

Noi non possiamo sapere cosa significa morire, dice Mathias, che usa adesso audio e video. È in camera sua, da solo. Un privilegiato, gli altri hanno molta gente intorno.

Comunque, la malattia di questa poesia deve essere stata peggiore del Coronavirus, aggiunge avvicinandosi alla web cam; qui sembra che muoiano tutti, col Coronavirus muoiono solo i vecchi.

Non è vero, risponde subito F. in chat.

I due non si sopportano.

Chi è Ares?, chiede Mathias ignorando il messaggio del compagno. Il dio della guerra. Se doveste illustrare le parole del poeta come disegnereste questo Ares?

Senza lo scudo e senza armi, scrive Giada, dopo aver riflettuto.

Ma un dio della guerra senza armi che senso ha? Qui il dio della guerra porta guerra con altre armi, porta guerra con la peste, rispondiamo insieme dopo averci pensato un po’. Anche oggi – dice Alessia –  siamo in guerra con il virus.

 Siamo davvero in guerra? – chiedo. Voi vi sentite in guerra?

Mathias si annoia: come facciamo a sapere cos’è la guerra? Noi siamo giovani, i vecchi che hanno fatto la guerra sono tutti morti.  Poi aggiunge, un po’ nervoso: no, non è una guerra, non ci sono bombardamenti, non ci sono armi, non ci sono eserciti.

La gente muore, scrive Giada. Emotico con sigh sigh. 

Non si possono seppellire i morti, aggiunge T.

Anche in questa poesia non si seppelliscono i morti: si dice che restano ‘abbandonati a terra’. Sofia dice che oggi non è proprio così: i morti sono sepolti, ma non si possono fare i funerali. Mathias scrive ‘è lo stesso’.

Sofia non è d’accordo, ‘non è lo stesso’, chatta subito con l’emoticon della rabbia.

Mathias insofferente non vuole più parlare di cose così tristi, ne ha abbastanza anche delle continue notizie che è costretto a sentire a casa, non vuole saperne più niente, chiude audio e video.

Giada cambia discorso: ma questa poesia è una preghiera?

Qualcosa di simile, rispondo, è un’invocazione agli dei. Zeus, che è il padre degli dei, ha il potere di vincere Ares, cioè l’epidemia. Con i fulmini? – chiede Greta. Al fuoco si risponde col fuoco, scrive Mathias; allora È UNA GUERRA (maiuscolo).

 Anche noi dobbiamo pregare Dio? – insiste Greta. Nessuno risponde. Si stanno distraendo. Gli dei Greci personificano dei fenomeni, scrivo. Ares rappresenta la guerra in forma umana, è un dio perché la guerra è un fenomeno immenso, potente, di una potenza sovrumana. Gli dei greci sono come dei super-uomini. Mathias scrive: CORONAVIRUS = DIO. Emoticon di risate.

Cosa pensate di questi versi? Sono difficili, scrive L.

Io non ho capito niente, aggiunge R. -Neanch’io, scrive P.

Io ho capito che non possiamo proprio farci niente, scrive F.

Cosa vuoi dire?, intervengo. C’è scritto qui: ‘nessun pensiero oppone un’arma per resistere al male’, scrive ancora F., quindi non ci possiamo fare niente.

Mathias si risveglia: questa è una poesia VECCHIA – scrive – non c’erano i medici di oggi.

Penso che basti, do loro un compito facoltativo, provare a illustrare i versi che abbiamo letto oppure rappresentare con un’immagine quel che stanno provando in questi giorni.

I risultati potete vederli sotto: Pietro è l’autore delle fotografie, Giada del ritratto del professore prima e dopo il covid19,  Chiara del disegno con il ragazzo e mascherina. Gli altri non hanno voluto partecipare.  

 

 

Andrea Cerica, dottore di ricerca con una tesi su Pasolini e gli antichi, è insegnante precario. 

Un ghiacciaio

Il primo stasimo dell’Antigone di Sofocle è uno dei passi più celebri della letteratura occidentale e un campo secolare di esercizio del pensiero.

In questi giorni bui di pandemia, i versi di questo canto corale, della cui musica siamo purtroppo privi, battono il ritmo delle ore, dei giorni, del tempo.

La hybris di  Prometeo e Serse

di Sotera Fornaro

UMANO e POST-UMANO.

La celebre asserzione di Protagora che ‘l’uomo è misura di tutte le cose’ (Platone, Teeteto 152a), esemplificata iconicamente nell’uomo di Vitruvio di Leonardo, esprime sinteticamente il principio basilare della visione umanistica della storia, ossia che  la ragione umana domina e determina gli eventi umani e il loro progresso. Il modello umanistico tradizionale, che dà appunto all’uomo il ruolo predominante rispetto all’ambiente, alla natura, agli animali, alle cose, è stato determinante non solo per la concezione dell’individuo, ma anche delle culture e delle società. Ma dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, la fiducia nella ragione umana e nella sua capacità di dominare razionalmente il mondo, nonché l’idea che il soggetto coincida con la sua coscienza razionale, alla quale si credeva subordinata l’emotività, è entrata radicalmente in crisi, sino al punto da essere decisamente messa in discussione o addirittura negata (antiumanesimo).

L’umanesimo tradizionale, dunque, parrebbe ormai insufficiente per comprendere e spiegare il ruolo dell’uomo nella storia e nel mondo: eppure quando cerchiamo non solo di definire cosa sia l’uomo, ma soprattutto cerchiamo di capire quel che si avvia ad essere, difficilmente riusciamo a liberarci dalla categoria dell’umano come espressione della centralità dell’essere umano, dei suoi bisogni, e delle sue esigenze, rispetto a tutti gli altri essere e ai problemi che attanagliano il mondo. Resta paradossalmente inevasa la questione essenziale: chi è l’uomo?

Inutile negare che l’umanesimo tradizionale pensa all’uomo solo in termini Europa-centrici e/o occidentali, e riconosce all’umanità colta, educata ai presunti valori dell’umanesimo antico, una posizione superiore rispetto al resto dell’umanità, anche in termini di responsabilità: questa concezione, palesemente razzista, finisce tra l’altro con lo scontrarsi con il tragico paradosso che ad essere ancora responsabile di oscene violazioni dell’umano, con la guerra, lo scempio della natura, lo sfruttamento economico, è proprio l’uomo così tradizionalmente inteso.

 

 Nuovi scenari sono stati certamente aperti dai  progressi della robotica e della cibernetica: perciò è stata da tempo già prodotta una categoria, quella del ‘post-umano’, che sta guadagnando posizioni anche nelle accademie e nelle università, che, come tutte le categorie, cerca di raccogliere elementi diversi e persino contrastanti. ‘Post-umano’ significa naturalmente che viene dopo l’umano, ma in che senso? L’industria robotica e dell’intelligenza artificiale immette sul mercato robot sociali, amici da tenere in casa, da lasciare come badanti dei nostri cari, dotati persino di nomi propri familiari o che sono divenuti familiari, tipo Alexa.

I meccanismi della cognizione umana sono ben lungi dall’essere completamente ricostruiti e i modelli di intelligenza artificiale si mostrano tutt’ora troppo semplici dal punto di vista comportamentale rispetto a quelli umani: tuttavia sono già abbastanza complessi per porre il problema dei modi con cui l’umanità si rapporta, si differenzia o addirittura si ibrida con la macchina.  D’altro canto, la robotica apporta degli innegabili vantaggi alla condizione umana, ed anche alla sua sostanziale fragilità e vulnerabilità, basti solo pensare al campo medico. Dunque post-umano significa anche ciò che è meglio dell’umano, che rappresenta un ulteriore tassello nella perfettibilità umana, in fondo un superamento dell’umano teso a infrangere il limite contro cui l’uomo da sempre nulla può, come recita il primo stasimo dell’Antigone, ossia la morte.

Certamente la prospettiva di superare l’umano attraverso la creazione di un’altra umanità è già antica, contenuta nel mito di Prometeo che, nei secoli, è diventato personaggio simbolico della creatività umana e contemporaneamente della sfida nei confronti della divinità: un creatore indipendente dal dio e dalla Natura, cioè, già nella narrazione mitica, non è conciliabile con una divinità creatrice, anche se questa si identifica con la Natura, anzi ne diventa uno dei peggiori antagonisti. Proprio Prometeo diventa dunque l’archetipo della hybris, dell’arroganza contro la divinità, ma di un particolare tipo di hybris, ossia della superbia dell’ inventore che attraverso le sue opere dell’ingegno finisce con il mettere in discussione l’autorità degli dei, e perciò viene terribilmente punito, inchiodato a una roccia e condannato, in ogni singolo istante, a confrontarsi con il dolore della condizione umana (che in realtà è estranea a Prometeo, che è un Titano, dunque anch'egli una divinità). 

I miti, come sappiamo, sono narrazioni che esprimono anche paure e angosce che risalgono ai primi stadi della storia e dell’evoluzione umana. Il mito di Prometeo esprime anche il terrore che la tecnica contenga in sé qualcosa di empio, la volontà e la forza di piegare la natura a fini utilitaristici, e quindi di trasgredirla. La paura della tecnica va di pari passo con il pessimismo storico, anch’esso già antico, che non riesce a vedere cioè nella storia alcun progresso, ma un’involuzione.

Già nel più antico testo della letteratura occidentale, l’ Iliade (VIII sec. a.C.), le generazioni passate sono viste come ‘migliori’, nel senso di più forti e più virtuose in guerra rispetto agli uomini del presente di cui racconta Omero: perciò gli eroi omerici hanno come imperativo morale, possiamo dire, essere sempre i ‘migliori’ e non venire meno alla gloria conquistata dai padri. Ma la prima immagine di un’età aurea perduta si ha in Esiodo, di circa un secolo posteriore ad Omero, nel poema intitolato Le opere e i giorni (vv.109-118): per quella stirpe d’oro la vita era in perfetta simbiosi con la Natura, non conoscevano vecchiaia, non conoscevano la necessità di coltivare la terra, la morte era come un abbandono al sonno profondo. Passato quel momento, la storia umana diventa una parabola discendente. Non è qui il caso di ricordare quanto abbiano influito sulle filosofie della storia occidentale, i discorsi che ipotizzavano uno ‘stato di natura’ o ancora una primigenia ‘età dell’oro’. Basti questo per dire che il sospetto nei confronti della tecnica e una visione regressiva della storia vanno di pari passo, e stanno sopiti, per così dire, pronti a risvegliarsi, anche nella cornice di una visione ‘post-umanistica’.

Così, sebbene consapevoli del possibile aiuto offerto dalla robotica, non riesce facile superare quella ‘valle perturbante’ che ci separa dal cyborg; e i meccanismi di identificazione, schedatura e controllo offerti dalla tecnologica ci appaiono non solo sempre più disumanizzanti, ma anche troppo invasivi della nostra vita, capaci di influenzare subdolamente la nostra capacità di giudizio. Insomma, la tecnologia, invece che apparirci mezzo di progresso, diventa uno spettro che possa, e voglia,  in qualche maniera distruggerci, ed una porta spalancata verso le ambizioni totalitarie.

Un altro importante aspetto del ‘post-umano’ è la perdita di centralità dell’uomo rispetto all’ambiente, alle altre specie animali, ma anche alle cose. Sicuramente, l’uomo adesso non è più pensabile come una monade, ma solo come un elemento (tra altri) in una rete complessa di relazioni, in cui ogni elemento ha pari dignità degli altri, anche dal punto di vista morale, degli altri. E tuttavia questa linea di pensiero, che dovrebbe in fin dei conti portare ad un maggior rispetto della presenza di tutti gli altri elementi nel mondo, ed è alla base di ogni ecologismo, nasconde ataviche paure: specie animale tra altre specie, si scopre che l’uomo può essere contagiato dagli stessi virus degli animali. Pandemia diventa allora un concetto ancora più generalizzato di quel che etimologicamente vuol dire la parola greca.

Il terrore primitivo per una natura ostile, lo stesso terrore che secondo alcune teorie del XVIII secolo aveva dato origine alle grandi potenze mitologiche della teogonia greca, il terrore verso gli animali feroci, grandi o microscopici come i batteri o virus, questo terrore così ben depositato nell’archivio delle nostre emozioni, torna di nuovo ad animare i nostri sogni inquieti, e a farsi prepotentemente strada nell’immaginario. Accade sempre quando abbiamo a che fare con un ‘nemico’ che non conosciamo o che non si lascia far conoscere: in maniera evidente credo che sia accaduto l’ultima volta dopo l’11 settembre, ma adesso la pandemia in corso ha esasperato paure e timori di tal genere.

IL COVID 19 e LA HYBRIS. 

Perciò cerchiamo, anche inconsapevolmente, l’origine del male che sta sconvolgendo le nostre vite proprio nella tecnologia, e crediamo volentieri che il Covid 19 sia nato in laboratorio, magari per gli esperimenti di uno scienziato alla ricerca di un’arma biologica, di sicuro intento a manipolare organismi genetici. Insomma, uno scienziato che diventa così in qualche maniera un erede di Prometeo e di altri personaggi tragici greci, la cui hybris, ‘arroganza’, nei confronti della natura, era punita dalla divinità.

Per dare un altro esempio,  pensiamo ai Persiani di Eschilo, la più antica delle tragedie greche che ci sono giunte (472 a.C.), in cui Serse, il re dell’ immenso Impero persiano, paga il fio per aver voluto piegare la Natura ai suoi fini, costruendo un ponte di nave sull’Ellesponto, un’opera, cioè, di alta tecnologia, grazie alla quale aveva potuto trasportare un esercito immenso in Grecia.

Nell’interpretazione greca, questa sfida di Serse alla Natura era avvertita come follia: ad accusare Serse, nella tragedia di Eschilo, è addirittura il fantasma del padre, il grande Dario, che lamenta e piange l’audacia del figlio, il quale «sperò di incatenare, quasi fosse uno schiavo, il sacro Ellesponto, la bosfora corrente del dio, e trasformò il guado in terra e, avvintolo in martellati ceppi, larga via a largo esercito approntò, e lui mortale si illuse nella sua stolidità di dominare Poseidone e tutti i numi. Come non credere che un morbo della mente soggiogasse il figlio mio?»  (vv. 744-751; traduzione di Franco Ferrari).

Nella tragedia eschilea la pena non è mai inferiore a tale colpa, ed è descritta a tinte fosche dalla stessa ombra di Dario: la guerra finirà male «e mucchi di cadaveri diranno, con muta testimonianza, agli occhi dei mortali fino alla terza generazione che creatura votata alla morte non deve pensare pensieri al di là della propria natura, perché Dismisura (hybris) se appieno fiorisce fruttifica in spiga di rovina, donde miete messe di pianto» (vv. 818-822). Ed infatti Zeus interviene e punisce terribilmente l’ambizioso Serse e tutta l’élite dei Persiani: la grande armata di Serse finisce, come sappiamo, rovinosamente distrutta, l’impero più grande del mondo allora conosciuto sconfitto da una coalizione di piccole città greche.

L’esempio di Serse è tanto più significativo, perché la sua hybris contro la Natura, e dunque la hybris tecnica, non è finalizzata all’utilità comune, ma alla sete di potere e di dominio: per noi vi è una profonda differenza etica tra chi pensa di poter varcare i limiti dell’umano per ampliare la conoscenza, e chi invece usa questa dismisura a fini politici e per ambizione personale. La punizione divina, tuttavia, nel mito greco, non risparmia né gli uni né gli altri, e l’uomo che si macchia di hybris, anche se inconsapevolmente, come Edipo, non è mai innocente. Il timore di una punizione divina, in realtà, per chi ‘ha osato troppo’, non necessariamente con intenti disdicevoli, aleggia ancor oggi, e soprattutto in questi giorni e nella giornata odierna, 22 Aprile, Earth day: quel che sta accadendo, anche ma non solo nelle parole del Papa, sembra una conseguenza dell’uomo che ha violato troppo a lungo e troppo consistentemente la Natura, e di una scienza che non si è voluta porre necessari limiti, che ha perso perciò il controllo, come in una fiction, di ciò che ha essa stessa creato. Ma è proprio così?

Abbiamo  posto una domanda ad uno scienziato, perché ci risponda con un esempio.

Si possono davvero violare le leggi della Natura?  

 

Virus da laboratorio e i sospetti contro la scienza. Il caso OGM.

di Antonio Carta

La scienza piega le leggi della natura. Su questa affermazione che vorrei proporre qualche semplice riflessione,  da scienziato, e non filosofo né da umanista,

Tra tutti gli argomenti antiscientifici che da un po’ di anni si diffondono, in maniera “virale” oserei dire, quali quelli che demonizzano i vaccini, gli xenotrapianti, l’alimentazione bilanciata, ecc., vorrei affrontare quello degli Organismi geneticamente modificati (OGM) per scopo alimentare.

Prima di farlo, però, devo affermare un principio: noi non possiamo sovvertire le leggi della natura. Queste leggi condizionano ogni nostra azione, e noi le usiamo allo scopo di ottenere risultati prevedibili e, possibilmente, a noi utili. Quello degli OGM è un esempio calzante. L’opinione pubblica è, con la sola esclusione della maggioranza degli scienziati esperti nel settore, ferocemente contraria al loro studio, al loro sviluppo e, soprattutto, al loro utilizzo. Nell’opinione comune, infatti, gli OGM sono contronatura, sono il frutto di una manipolazione umana che ha come risultato la produzione di specie aberranti, capaci di sconvolgere il naturale equilibrio biologico del nostro pianeta. Ma si tratta, appunto, di opinioni, di quel che i Greci chiamavano doxai, opinioni consolidate e diffuse, qualche volta tradizionali, qualche altra volta rafforzate dalla religione, difficili da confutare, ma lontane dall’ aletheia, dalla ‘verità’, che è invece lo scopo della scienza come della filosofia. Le doxai, perciò, devono essere confutate.

Partiamo dalla seconda affermazione: gli OGM sono specie aberranti, cioè specie che la natura non genererebbe mai spontaneamente proprio perché sconvolgerebbero l’equilibrio che si è instaurato nel corso degli eoni. Ma da dove nasce una così perentoria sicurezza? Niente di ciò che conosciamo supporta questa credenza, anzi è vero il contrario. Nella storia della Terra “la natura” ha sviluppato più e più volte, differenti specie che hanno sconvolto, e spesso rimodellato, l’intero pianeta. A partire dai primi microorganismi produttori di ossigeno (cianobatteri) che ai primordi della vita hanno avvelenato il pianeta uccidendo le specie che non sono riuscite a adattarsi alla loro presenza. Per non parlare del numero infinito di specie che si sono estinte a causa delle mutate condizioni ambientali, comprese, molto probabilmente, la comparsa di nuovi microorganismi per loro patogeni. Ma noi stessi esistiamo grazie a una grande catastrofe. Se un enorme asteroide non avesse prodotto l’estinzione dei dinosauri i mammiferi non si sarebbero evoluti, allora erano dei piccoli animali simili a topolini, e conseguentemente neanche i primati, di cui noi facciamo parte. Come ci ha ben spiegato Jacques Monod nel suo Il caso e la necessità (1970). Solo questi due fattori determinano lo sviluppo della vita e proprio in questo ordine. Come d'altronde diceva Democrito: Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità. Quindi noi esseri viventi, come singoli individui e conseguentemente come specie, reagiamo al caso adattandoci a esso e, se possibile, adattando l’ambiente alle nostre necessità. Il risultato è l’equilibrio metastabile che ci circonda. Metastabile appunto, basta poco per alterarlo. Perciò dimentichiamo l’idea che ciò che cerchiamo di fare per adattarci alle necessità che mutano col tempo sia innaturale, l’intera natura si comporta allo stesso modo. Naturalmente ciò non significa che ogni nostra azione volta a modificare l’ambiente che ci circonda abbia un effetto positivo sull’ecosistema in cui viviamo, tutt’altro. Dobbiamo valutare gli effetti delle nostre azioni, ma non dobbiamo partire dall’asserzione ideologica che modificare l’ambiente che ci circonda sia di per sé un male in assoluto.

Se poi analizziamo l’altra opinione che condanna gli OGM in quanto frutto di una manipolazione umana che, modificando il genoma di specie “naturali”, non ci dà garanzie sulla sicurezza degli alimenti così prodotti, non abbiamo remore ad affermare che si tratta di un’opinione ipocrita. Intanto non è assolutamente vero che sono solo gli OGM che derivano da una manipolazione genetica: lo sono quasi tutti gli alimenti che quotidianamente mangiamo, come hanno ben documentato Dario Bressanini e Beatrice Mautino nel loro Contro natura. Dagli OGM al «bio», falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola (2015).

Di fatto, non esiste cibo che non sia stato geneticamente modificato in passato. Esempi? Un’infinità. Iniziamo dal grano. Le varietà di grano che noi oggi coltiviamo, e quindi mangiamo, sono frutto di numerosi incroci e selezione dei risultati migliori, dal nostro punto di vista. Compresa l’altezza delle spighe in modo da facilitarne il raccolto. Non solo per produzione di nuove specie per ibridazione di alcune selvatiche, ma anche per irradiazione artificiale. Da qui la fake new di alcuni anni fa che affermava che il nostro grano duro è radioattivo, cosa che dimostra che i divulgatori, nonché coloro che ci hanno creduto, non avevano la minima conoscenza di fisica e biologia. Un altro esempio? Le carote. Pensate a questo alimento e al suo bel color carota. Sapete che non è il suo colore originale? Il colore della specie selvatica è intermedio tra il porpora e il viola, e neanche il sapore è paragonabile. Anche l’innocua carota, dunque, è frutto di incroci vari. Potremmo continuare all’infinito e non solo per i vegetali ma anche per gli animali. Magari non tutti siamo a conoscenza degli incroci che hanno portato alle moderne mucche da latte o ai maiali, ma tutti conosciamo la storia del cane e delle sue numerose razze, anche se un lupo certo non lo riconoscerebbe mai come suo discendente.

A questo punto si potrebbe dire che in ogni caso incroci e selezione, anche se artificiali, non differiscono molto dai meccanismi naturali, mentre gli OGM sono frutto dell’ingegneria genetica. Vero, ma qual è la differenza? Il risultato è sempre lo stesso. Una diversa combinazione delle quattro basi nucleari, A, C, T, G, che producono differenti proteine. La vera differenza è nel metodo. Con la selezione per incrocio occorrono numerose generazioni e grandi sforzi prima di ottenere il prodotto desiderato, con l’utilizzo del DNA ricombinante si ottengono risultati più velocemente. Questo perché si inserisce una sequenza del DNA prescelta e non si aspetta di ottenerla per caso. Il paradosso è che in Europa, quindi anche in Italia, quello che si vieta è il metodo non il risultato.

Mi spiego meglio. È vietato produrre e commercializzare nuove specie vegetali ottenute grazie alle tecniche genetiche ma non quelle ottenute per ibridazione di altre specie, indipendentemente dal risultato. Quindi non si bada al fatto se una specie sia utile o potenzialmente pericolosa, ma solo alla procedura con cui la si è ottenuta. Paradossalmente, infatti,  noi importiamo dall’estero, attraverso l’acquisto di alimenti, grandi quantità di mais transgenico, che da tanti anni mangiamo tranquillamente, senza però poterlo produrre. Pensate il grande dispiacere della Monsanto! Pensiamo a quanto cibo potremmo produrre in futuro se riuscissimo a progettare e ottenere delle piante in grado di vivere in climi aridi, o comunque difficili per le attuali specie commestibili.

Quindi in definitiva, non è venuto il momento di diventare antifragili? Il Covid19 non ci ha insegnato a prendere in mano il nostro destino e, anziché fare dei generici richiami a una natura perduta, deciderci a vederla per quello che è: il caso e la necessità? La nostra necessità è quella di studiarla a fondo e, per esempio, imparare a sconfiggere i virus così come abbiamo fatto per un altro terribile agente patogeno: il vaiolo. Qualcuno forse ne sente la mancanza?

Antonio Carta è professore di Chimica Farmaceutica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Farmacia ospedaliera dell’Università di Sassari, specialista, tra l’altro, di farmaci anti-virali. Oltre alla sua attività scientifica di riconosciuto livello internazionale è scrittore di thriller a fondo scientifico. Il suo ultimo romanzo Il riverbero della setta oscura parla di un complotto internazionale che coinvolge uno scienziato, il professor Piras, ed ha inquietanti tratti di attualità.