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@Remo Rachini

 

 

Si racconta che un tempo tutto il popolo di Abdera fosse colpito da un’epidemia: dapprincipio si diffuse una febbre, che sin dal primo giorno si manifestò come violenta e ostinata, sino a che, dopo sette giorni, in conseguenza di copiose emorragie dal naso per alcuni, o di una abbondante sudorazione per altri, la febbre calò. Ma la malattia restò ugualmente nelle loro menti, e li rese tutti ridicoli, perché tutti si misero a recitare tragedie:

Scena dal Filottete, Scuoola di Teatro di Berlino

Una spedizione greca arriva nell’isola deserta di Lemno, dove, durante il viaggio dell’esercito greco verso Troia, i Greci avevano abbandonato uno di loro, Filottete. Sono passati dieci anni, la guerra non è finita, l’assedio continua. Un indovino ha predetto che la città sarà presa solo se Filottete e il suo arco verranno portati a Troia.

 

 

Quando parliamo di tragedia in ambito medico, intendiamo un evento drammatico che altera e spesso distrugge lo stato di salute o di benessere dell’individuo. Rispetto ad altre tragedie di tipo sanitario, però, la pandemia del Covid-19 pare avere conseguenze che travalicano l’esperienza individuale della malattia e della morte per estendersi a tutte le nostre società industrializzate: sentiamo infatti il pericolo della malattia come minaccia al nostro benessere, alle nostre certezze, al nostro superfluo e alla nostra stabilità, che si è rivelata, improvvisamente, estremamente fragile. Come reagiamo a questa tragedia?

Riponiamo tutta la nostra fiducia in qualche bravo ricercatore, con la speranza che riesca a preparare al più presto quel vaccino che risolverebbe la ‘pratica’ in via definitiva; convinti che questa sia la sola strada, l’unica soluzione. Con il vaccino ognuno può mettersi al riparo e riprendere la vita di prima; i disagi e i sacrifici di queste settimane presto saranno dimenticati con la ripresa della routine – pensiamo. Questo tipo di speranza e di aspettativa dimostra però, a mio parere, la nostra inadeguatezza a cogliere l’opportunità che attraverso una dolorosa prova ci viene offerta per frenare la crisi spirituale, etica, religiosa, sociale in atto ormai da anni.

Vorrei perciò addurre delle considerazioni, che vanno in una direzione diversa rispetto alla fiducia nella sola scienza. Penso che dovremmo entrare in contatto intimo, per così dire, con la malattia in sé stessa: non considerarla più, cioè, un oggetto di osservazione scientifica, un oggetto altro da noi, distante da noi; dobbiamo considerare la malattia un oggetto con cui entrare in familiarità,  qualcosa che possiamo conoscere anche senza disporre di strumenti scientifici, perché l’esperienza è conoscenza. Attraverso il contatto diretto con il tragico, come attraverso l’esperienza individuale con la malattia, ci è consentito  infatti conoscere e comprendere meglio le nostre fragilità, valutare i nostri limiti, ridimensionare le nostre aspettative e aspirazioni, quando risultino debordanti e distorte. Ciò permette talora anche di superare o vincere la malattia, che non vuol dire necessariamente guarire dal disturbo, ma più semplicemente conviverci, porsi in ascolto con il cuore più che con la mente, per comprendere cosa vuole dirci quel disturbo: vuole forse parlarci di noi stessi e del mondo? Convivere con la malattia e con la paura di essa è attualmente reso possibile dalla situazione pandemica: perché noi viviamo, esperiamo la situazione di malattia, anche quando non siamo, fortunatamente, malati in prima persona. Perciò il processo di guarigione ci riguarda da vicino, perché non si tratta solo di una guarigione fisica.

Dovremmo innanzitutto ridimensionare la fede nella scienza: del resto,  gli straordinari progressi scientifici della medicina, supportati da sofisticate innovazioni tecnologiche, non hanno impedito l’irrompere di un virus, neanche tanto aggressivo e letale, e la sua diffusione in maniera pandemica. Non è la prima volta che accade, e quel che è peggio: ci sarà ancora una nuova epidemia in grado di espandersi, in modo naturale o sollecitata dall’intervento dell’uomo. Finalità economico-politiche, atteggiamenti esasperati e sconsiderati di alcuni settori della ricerca scientifica (manipolazione genetica, clonazione, accanimento terapeutico) possono portare al punto di non ritorno il pianeta tutto.

Ma dobbiamo anche cambiare i nostri modelli di riferimento: come sappiamo bene, l’uomo di oggi ambisce ad un modello ideale che lo vuole in forma, all’altezza di ogni traguardo, sano, forte e dominatore, il più a lungo possibile; l’invecchiamento fisico è temuto molto più di quello intellettuale, o comunque ci si adopera di più per rinviarlo o esorcizzarlo. Ciò corrisponde anche ad una forma di egoismo: pensiamo a noi stessi, a star bene individualmente, cerchiamo perciò di ignorare la pericolosità e la dannosità dei comportamenti collettivi, o di arginarne la consapevolezza. L’aspetto e il benessere fisico sono più visibili, e perciò importanti, dell’emotività e della spiritualità, aspetti dei quali, in generale, ci si dà molto meno cura e ai quali si presta molta meno attenzione.

Significativo come anche l’accesso al sacro, che pure ha una straordinaria e dimostrata valenza terapeutica, sia stato fino ad ora, escludendo una parte dei credenti, sottovalutato e poco praticato, poco consigliato e percepito. Ma c’è ancora posto per il sacro come intervento terapeutico nella moderna scienza medica?

Il fatto è che la malattia in quanto tale, che si chiami Covid-19, ulcera o cancro, non è da considerare solo sotto il profilo medico e scientifico, ma va indagata in funzione del singolo ammalato, inteso come persona nella sua totalità, e non relativamente all’ organo o all’ apparato coinvolto. La stessa malattia non colpisce più persone allo stesso modo. Ogni ammalato reagisce in toto alla noxa patogena e in maniera personalissima. La stessa guarigione è in funzione di questo corollario. Aspetti, questi, sottolineati da tutte le medicine di tradizione millenaria: da quella greca (Ippocrate, Galeno) all’Ayurveda alla Medicina Tradizionale Cinese.

È risaputo che un’arte medica che si discosta dalla natura e dai suoi equilibri, dall’etica e dal sacro, è destinata a restare una scienza imperfetta e fallace.

Nella lingua ideogrammatica cinese il carattere zhi, adoperato per descrivere ‘il trattamento’, presenta una duplice valenza: saper governare e curare. Da una parte quindi trattare gli eventi in modo tale da ripristinare l’ordine naturale, dopo un movimento di perturbazione, dall’altra saper recuperare le normali attività vitali dell’organismo dopo una malattia. Il concetto di salute dal punto di vista dell’antica medicina cinese è quindi frutto di un equilibrio naturale e dinamico fra yin e yang nel corpo umano (microcosmo) che in qualche maniera riflette quanto avviene in natura e nell’universo (macrocosmo). L’intervento terapeutico allora non è in funzione della malattia, ma dell’equilibrio energetico che l’individuo presenta nel momento dell’attacco del patogeno. In altri termini: bisogna agire in senso preventivo.

Per equilibrio si intende una condizione armonica fra le energie del Cielo e quelle della Terra fra le quali gli esseri viventi, uomo compreso, dimorano. Non basta la sola presenza del virus o del batterio per scatenare una epidemia o peggio ancora una pandemia; vi contribuiscono anche altre componenti, quali costituzione fisica e psichica, l’ambiente circostante, l’alimentazione, gli stili di vita, l’attività lavorativa.

La Medicina Tradizionale Cinese, a proposito del principale organo bersaglio del COVID 19 - il polmone - non considera solo il tessuto polmonare, ma tutto ciò che nel corpo è collegabile a quest’organo (naso, muscoli respiratori e diaframma, pelle e peli, intestino, sistema immunitario, reni), a sua volta associato al Metallo, uno dei cinque elementi/movimenti della fisiologia tradizionale cinese e della filosofia taoista. Il Metallo, nel corpo umano, si esprime secondo i caratteri propri dell’elemento: durezza, preziosità, freddezza, splendore, ma anche distacco, chiusura, rigidità, rientro e interiorizzazione, malinconia, introspezione. Principale funzione di tutto ciò che è ‘polmone’ è garantire e mantenere la respirazione in maniera naturale. L’attività respiratoria inizia con il primo e faticoso vagito del neonato (espiro), ossia con l’emissione di aria verso l’esterno, a sottolineare simbolicamente una sorta di ‘entrata nella luce’ dopo nove mesi di permanenza nell’interno, nella profondità, nel buio, nel silenzio e si conclude con l’esalazione dell’ultimo respiro, che ci riporta nella condizione di pre-esistenza.

Basterebbe riflettere su questo aspetto (respiro quindi vivo e ho consapevolezza di esistere) per comprendere come sia fondamentale la respirazione per comunicare con l’interno e l’esterno. Polmone, naso, ma anche pelle e intestino sono pertanto apparati paragonabili a un limes fra interno ed esterno. Un confine perciò molto delicato e sensibilissimo, che va tenuto sempre in ordine, efficiente, allertato. Perversità energetiche provenienti dall’esterno possono provocare uno squilibrio energetico in uno o più apparati dell’organismo, a un livello superficiale o profondo. Se non si interviene per ripristinare l’equilibrio iniziale, il quadro potrebbe evolvere verso una vera e propria malattia conclamata. Ecco allora l’intervento preventivo del terapeuta, che sa leggere quei segni e sintomi funzionali e correre ai ripari riportando il sistema nel suo stato armonico.

La palingenesi che tutti auspichiamo come frutto dei sacrifici e dell’impegno di tanti possa anche comprendere una visione rinnovata della medicina, del malato e del medico, meno indifferente rispetto ai valori e ai bisogni veri dell’essere umano, considerato come un’unità miscroscopica che riflette l’armonia del macrocosmo.

 Nicola M. Papparella è medico, agopuntore ed esperto di Medicina Tradizionale Cinese. Vive e lavora a Milano. https://www.sowen.it/docenti/nicola-m-papparella/

 

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