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Ragazzi nazisti

Solo da una ventina d’anni sono venuti alla luce documenti e testimonianze sulle attività, durante gli oscuri anni del regime hitleriano, degli Istituti universitari di anatomia ed istologia tedeschi e dei territori occupati dai nazisti.

Il rapporto tra scienza e società e degli scienziati con il potere non ha mai riscosso, almeno fino al momento della crisi da epidemia virale, particolare interesse. È la stessa scienza, in generale, che è stata relegata ai margini degli spazi culturali e ristretta nell’ambito delle materie da specialisti. Le motivazioni sono diverse e nonostante l’Italia sia il paese dove la scienza è nata probabilmente una vera cultura scientifica non si è mai diffusa.

La stessa parola scienziato, viene comunemente utilizzata non tanto per definire chi ha fatto della scienza il proprio lavoro, ma piuttosto una persona eccentrica e dedita a studi poco comprensibili. Se uno vale uno, lo scienziato non ha alcuna possibilità di far ascoltare la sua voce, poiché l’opinione di chiunque, ancorché non suffragata dall’evidenza dei fatti vale allo stesso modo. C’è un’espressione che recentemente è diventata piuttosto popolare, ossia che “la scienza non è democratica”. Non è infatti la maggioranza che decide ma l’evidenza sperimentale. Tuttavia, la scienza non è neanche una clava che può essere usata a piacimento per tacitare il cittadino che non se ne occupa in modo professionale e ha però il diritto di comprendere ed essere informato. 

Come conseguenza gli scienziati tendono a parlare solo con i propri pari, cercando sporadicamente di comunicare alla società i risultati dei propri studi. La diffusione dei social media ha amplificato queste difficoltà, la diffusione di false informazioni ha facilmente la meglio sulla flebile voce dello scienziato, sempre in minoranza e poco in grado di competere con il linguaggio spesso partigiano ed esacerbato dei social. Cercare di spiegare che curarsi con l’omeopatia o la medicina tradizionale cinese, non è solo inutile ma anche pericoloso rischia di esporre il malcapitato di turno a probabili invettive da parte dei fedeli delle nuove superstizioni che non ammettono di poter essere contraddetti. Meglio rinunciare, anche se questo può lasciare libero spazio alle teorie più strampalate.

La ricerca scientifica si basa sugli esperimenti, la loro interpretazione, la valutazione degli errori sperimentali e la costruzione di una teoria coerente conseguente. Che resterà valida almeno fino a che non sarà falsificata da altri esperimenti o altre interpretazioni consistenti con i dati. È un processo faticoso e complesso.

È comprensibile che di fronte al tedio di progettare con grande cura gli esperimenti cercando di evitare le trappole degli errori sistematici, l’analisi e interpretazione dei dati, si possa essere presi dallo sconforto e forse cercare scorciatoie. Nei momenti di crisi la società richiede alla scienza risposte precise e immediate. Purtroppo, il metodo scientifico che si basa sull’acquisizione di dati e sulla loro validazione richiede tempi lunghi.

Tra gli scienziati si fa spesso la battuta, sai quali sono i tempi della ricerca? Sono tre, lento molto, lento e lentissimo. Ogni scorciatoia, ogni mancata scrupolosa verifica degli esperimenti e la loro ripetizione può portare al disastro. Abbiamo avuto vari esempi. Nel 2011 veniva annunciata da un gruppo di ricercatori italiani una scoperta sensazionale destinata a ribaltare profondamente la nostra conoscenza scientifica, ossia che i neutrini viaggiano ad una velocità superiore a quella della luce. La teoria della relatività poteva andare in pensione. Peccato che il banale malfunzionamento di una presa di corrente avesse inficiato la raccolta dei dati sperimentali. Al danno si è aggiunta poi la beffa quando il ministero della ricerca e università ha pensato di cavalcare il successo dell’esperimento comunicando che tale fantastica scoperta era stata possibile grazie al tunnel scavato da Ginevra al Gran Sasso.

La fretta di pubblicare i dati che avrebbero portato a gloria imperitura ha giocato un bruttissimo scherzo proprio a chi avrebbe dovuto fare del dubbio e dell’analisi critica uno strumento imprescindibile.

Gli scienziati tuttavia sono ovviamente persone normali, anzi per certi versi più deboli e indifese perché abituate a vivere in un ambiente protetto, all’interno dei laboratori di ricerca, a volte con una visione segmentale e autoreferenziale del mondo. Improvvisamente però il mondo esterno presenta il conto e chiede agli scienziati le risposte certe e immediate che non sono in grado di dare. Dovrebbero infatti essere capaci di comunicare la complessità e il dubbio, ma il tempo non c’è e servirebbe l’umiltà di saper dire in pubblico, non sappiamo.

Sapere di non sapere è un principio, come Socrate ci ha insegnato, sul quale costruire il fondamento della conoscenza.

La conseguenza è il balbettio dello scienziato, che non usa più il linguaggio della scienza ma opinioni personali non suffragate dagli esperimenti.

Quella cosa lunga, tediosa, ripetitiva che è alla base della ricerca. Più facile dare suggerimenti e pareri da “esperto” e utilizzare la “non democraticità” della scienza per far passare punti di vista personali per verità scientifiche.

A questo punto entra in gioco un altro aspetto molto delicato, il rapporto tra scienza e potere.

È un abbraccio mortale dal quale non molti scienziati hanno la capacità di svincolarsi. Serve indipendenza e coscienza etica. La ricerca tuttavia dipende dai finanziamenti che vengono garantiti dalla politica e non può fare a meno di questi. La politica però in tempo di crisi ha bisogno dell’apporto degli scienziati i quali trovano una ribalta altrimenti riservata alle star dello spettacolo e dello sport. È una situazione in cui gli scienziati meno scienziati degli altri, ma che sanno comunicare meglio e meglio dialogare con il potere, occupano il centro della scena.

Lo spettacolo degli scienziati, o sedicenti tali, che pubblicamente si contraddicono e bisticciano, confonde e disturba. La discussione, l’analisi dei dati e delle soluzioni non dovrebbe divenire parte del rumore di fondo dei mass media che onnipresenti ci bombardano di informazioni. Non dovrebbe essere una traiettoria segnata, un destino già scritto che relega lo scienziato all’irrilevanza o a meteora da talk show.

Il nostro paese ha una risorsa straordinaria, una cultura profondamente radicata sull’umanesimo.

La nostra impotenza di fronte alle grandi sfide globali ha mostrato come la conoscenza settoriale non ci permette di affrontare la complessità del mondo. L’università dovrà essere al centro di una piccola rivoluzione in cui gli scienziati delle generazioni future dovranno avere la capacità di dialogare con i saperi e le discipline più diverse. Umanisti scienziati e scienziati umanisti, con molta umiltà e il grande desiderio di spostare sempre più avanti la frontiera della conoscenza.

Plinio Innocenzi è professore ordinario di Scienza e Tecnologia dei Materiali presso l’Università di Sassari dove è responsabile del laboratorio di scienza dei materiali e nanotecnologie. Si è laureato in Fisica presso l’Università di Padova ed è stato ricercatore associato presso l’Università di Kyoto in Giappone dal 1992 al 1996. Dal 2010 al 2018 è stato addetto scientifico presso l’Ambasciata d’Italia di Pechino. Il suo interesse di ricerca è focalizzato nell’ambito delle nanoscienze e nanomateriali. Si occupa di divulgazione scientifica, in particolare della scienza e tecnologia del Rinascimento.

Le immagini sono tratte dalle performances teatrali Uncanney Valley e Société en chantier / Society under Construction dei Rimini Protokoll: https://www.rimini-protokoll.de/website/en/  L'immagine centrale, invece, è una vignetta pubblicata sulla Pravda nell'ottobre del 1988: per la propaganda sovietica e per il regime della Repubblica Democratica Tedesca il virus dell'AIDS era un'arma biologica diffusa dagli Stati Uniti. 

«Transitraum»

Nei tre mesi passati, mesi di assenza umana nelle strade, nelle aule scolastiche e universitarie, nei teatri e cinema, nei musei, abbiamo cercato di riflettere su quanto le narrazioni delle tragedie greche possano esprimere, simbolicamente o storicamente, esigenze, bisogni, questioni del nostro presente, e quanto la nostra visione del mondo, attualmente, possa definirsi o meno ‘tragica’. 

Abbiamo perciò cercato, ampliando i contenuti di questo blog, di venire incontro all'esperienza straordinaria di cui siamo divenuti protagonisti, cercando di non venir meno alla prima funzione del teatro nella tradizione occidentale, che è portare in scena i problemi della polis, della città. 

Siamo andati oltre l'obiettivo che ci eravamo prefissi nel momento in cui abbiamo fondato questo sito web? Non crediamo. 

Ci ha guidati anche un'idea antica del teatro come luogo fisico e metaforico di incontro, dibattito, conflitto, agone, senza limite alcuno alle posizioni degli antagonisti, ai temi dei drammi, alle competenze che si mettono in gioco. Abbiamo forse commesso un atto di presunzione intellettuale: rendere un blog di studi sul teatro, teatro esso stesso, che si offre alla visione di un pubblico non passivo, ma chiamato in scena. 

Mentre interrogavamo la tragedia greca alla luce del presente (e non può essere possibile il contrario), ci siamo scontrati con domande insistenti, che divenivano tarli del pensiero nella tragedia dell'attualità.

Non siamo stati e non siamo, naturalmente, i soli, non abbiamo pretese di originalità, però rivendichiamo qualche acquisizione nostra specifica. Interrogandoci sulle 'visioni del tragico', e sull'eredità e l'adattamento della tragedia greca nel presente, abbiamo tra l'altro nuovamente trovato conferma di ciò che già sapevamo:  il futuro passa attraverso la comprensione del passato e della sua complessità.

Come continuare allora la nostra ricerca, in questa fase di transizioni, di attenuarsi della paura e del crescere di altre paure? 

'Ricerca, indagine' in greco si dice historia, e sin dai suoi albori la storia non racconta solo ciò che è stato, ma dà anche indicazioni su ciò che sarà. Così noi, ancora una volta,  volgendoci al passato, guardiamo invece al futuro.   

Ed infatti questo è un tempo strano, ma sicuramente il tempo di intensificare la discussioni sui modi con i quali intendiamo affrontare il futuro: è necessario, adesso forse più che mai, interrogarsi sui legami tra scienza, arte, società, con analisi critiche e storiche, ma anche con proposte concrete, con una presa di posizione che tenti di definire il ruolo dell’essere umano rispetto a tutto ciò che lo circonda, di comprendere la posizione della libertà e del giudizio umano rispetto ai progressi dell’intelligenza artificiale, di chiarire quale efficacia abbia l'agire umano nella natura e non in opposizione ad essa, di rideterminare la funzione specifica dell'uomo tra le altre specie e tra gli oggetti. Senza tali interrogativi, qualsiasi ricerca è destinata a isterilirsi.

Dobbiamo chiederci come si sta trasformando il rapporto tra arte e politica, tra ricerca e potere, tra estetica ed etica; quali forme di controllo limitano la nostra libertà, senza che ce ne accorgiamo, quali strategie comunicative ed emotive generino il consenso, quali siano gli spazi fisici e mentali del dissenso, quali cambiamenti la virtualità imponga non solo ai concetti di 'vero' e 'falso', ma anche di 'bene' e 'male'. 

La ricerca non è mai obiettiva: chi ricerca, che si occupi di manoscritti oppure di virus, entra in gioco con tutto se stesso, con le proprie idee, le proprie emozioni, le passioni e specialmente con l'amore, immenso, infinito, per quello che fa, per l'oggetto della sua ricerca e per la ricerca in se stessa. 'Studio' significa etimologicamente 'desiderio', un desiderio che si autoalimenta proprio perché, essendo desiderio di conoscenza, non ha alcun limite. 

La nostra ricerca si lascia trascinare da tale desiderio. E perciò non può che voler infrangere qualsiasi confine, ed anche la prima linea di confine di fronte alla quale, inevitabilmente, ci troviamo: 'Visioni del tragico' è il sito di un progetto che nasce e vive nell' Università, che perciò deve interrogarsi criticamente sul proprio significato all'interno dell' istituzione universitaria e sulla sua capacità di agire fuori da essa. 

Ci rivolgiamo a chi ha, come noi, una consapevolezza: la separazione tra le discipline scientifiche e i loro attori, ossia coloro che le praticano, è il frutto di un processo di istituzionalizzazione della ricerca e dell’insegnamento universitario che da tempo (in realtà dal momento stesso dell’istituzione moderna dell’Università) mostra le sue crepe, non solo educative e formative. La distinzione tra le due culture e di due tipi di scienze, quelle dell'uomo e quelle della natura, per quanto ancora influente, diventa un limite invalicabile per la comprensione del presente e soprattutto per progettare l'avvenire.

‘Visioni del tragico’ si apre perciò da adesso ad un'indagine sul futuro, sperando di coinvolgere quante più persone possibili nell'agone, nella coscienza che temi come quelli a cui abbiamo accennato possono e devono ampliarsi in una spirale che coinvolga l’attività concreta di ognuno di noi e le riflessioni teoriche o storiche su questi problemi.

‘Visioni del tragico’ diventa perciò un Transit-raum, un luogo di passaggio, un luogo di sconfinamento, uno spazio di transizione,  come il drammaturgo tedesco  Heiner Müller definiva la sua abitazione/studio, che si trovava proprio sulla linea del muro che  separava Berlino Est da Berlino Ovest. Luogo di passaggio tra mondi, tra diversi modelli, diverse velocità di esistenza, luogo di passaggio dalla carta stampata allo schermo, da chi scrive al lettore, da dietro le quinte alla scena di un metaforico e ignoto teatro.

Transitraum,  parola tedesca che porta in sé il termine Traum, che significa 'sogno'.      

 

Oedipus Stadt - Deutsches Theater

TIRESIA

Anche stanotte l’ho visto aggirarsi senza sosta, passare di stanza in stanza nei domata della sacra rocca di Tebe: