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Quando mi fu richiesto di tradurre Le Fenicie di Euripide per la messa in scena in programma al teatro antico di Siracusa nel maggio 2017 (per il 53° Ciclo di Rappresentazioni Classiche dell’I.N.D.A.), il primo, inevitabile passaggio è stato il confronto con la mia precedente esperienza di traduttore della stessa tragedia[1].

Gli spettacoli di Siracusa, che quest’anno si presentano per la prima volta nella cornice di una vera e propria ‘stagione’ teatrale, come annuncia il nuovo sovrintendente Antonio Calbi, costituiscono una festa per la città, una specie di rito collettivo per i licei classici non solo siciliani, una non secondaria attrazione turistica tra le testimonianze archeologiche. Unico e essenziale in una tale ‘stagione’ diventa perciò il coinvolgimento emotivo di tutto il pubblico, sia dei novizi che si trovano a Siracusa per caso, magari dagli Stati Uniti o dal Giappone, sia degli affezionati siracusani che seguono da generazioni gli spettacoli con lo stato d’animo della ‘prima’ a cui bisogna esser presenti, e ogni anno trascina pure i cultori della letteratura greca e gli specialisti di teatro antico, che arrivano lì con curiosità ma anche voglia di imparare e confrontarsi con una contemporanea ‘visione del tragico’.  

 

E’ un dato di fatto che, a partire dall’inizio dell’800, il testo dell’Antigone di Sofocle sia servito per l’esercizio filosofico. È un altro dato di fatto che questa appropriazione del testo di Sofocle da parte della filosofia abbia finito spesso per eclissare il suo aspetto più propriamente drammaturgico e teatrale. Una via per conciliare riflessione sul testo e aspetto performativo si trova in quello che forse è il più influente libro sull’Antigone degli ultimi vent’anni, La rivendicazione di Antigone di Judith Butler, apparso nel 2000.